La trasferta è il trasferimento della prestazione lavorativa presso un’altra sede diversa da quella dove viene svolta abitualmente che può essere anche all’estero.
Non bisogna confondere le trasferte con il trasferimento, quest’ultimo si differenzia per la durata del cambio di luogo, in quanto nel trasferimento è definitivo e non provvisorio. Le trasferte lavoro sono diverse anche dal ruolo del trasferista che è colui che presta la sua attività lavorativa in luoghi sempre diversi.
Condizione necessaria affinché possa parlarsi di trasferta del lavoratore, è la continuità del legame tra il lavoratore è l’originario luogo di lavoro. Detto ciò possiamo riassumere come segue le caratteristiche più importanti della trasferta:
- il cambio del luogo di lavoro, che viene indicato nel contratto di assunzione o desumibile in base all’effettivo luogo di svolgimento della prestazione;
- la temporaneità del luogo di lavoro.
Economicamente parlando, i Contratti Collettivi regolarizzano le trasferte di lavoro riconoscendo un’indennità di trasferta e il rimborso delle spese sostenute dal lavoratore.
Il comma 5 dell’articolo 51 D.P.R. n. 917 del 1986 stabilisce che le indennità di trasferta dei lavoratori sono esenti fino alla somma massima di 46,48 euro al giorno per quelle in Italia e di 77,47 euro al giorno per quelle estere. Le esenzioni si riducono di un terzo se al lavoratore si riconosce un rimborso per le spese di vitto e alloggio. Le trasferte che avvengono all’interno dello stesso comune concorrono alla formazione del reddito imponibile ai fine IRPEF.
Il dipendente deve presentare all’azienda tutta la documentazione della spesa sostenuta. Anche i giorni festivi, il sabato e la domenica rientrano nel calcolo del periodo della trasferta.
Invece, le spese di viaggio, di trasporto e i rimborsi chilometrici sono sempre esenti.
Ma dal 2010 le cose cambiano. La Direzione Generale per l’Attività Ispettiva interpreta in maniera molto riduttiva il sopraccitato comma 5 dell’art. 51 del TUIR con l’interpello n. 14 del 2010.
Vediamo di seguito le ipotesi che si avallano:
- L’indennità di trasferta è totalmente esente da contribuzione e IRPEF nei limiti previsti dai contratti collettivi nazionali o di secondo livello. Bisogna depositare i contratti collettivi presso la competente Direzione Provinciale del Lavoro e presso gli Enti previdenziali entro 30 giorni dalla stipula.
- Le maggiori somme riconosciute a titolo d’indennità di trasferta dall’azienda al lavoratore in base ad accordo individuale, devono essere gestite con un criterio di superminimo individuale e quindi soggette ad imposizione fiscale e contributiva, tutto questo senza aver dimostrato alcun intento evasivo.
Avendo ricevuto tantissime critiche, il Ministero fa un passo indietro e con la nota del 21 aprile 2010, precisa che quanto dichiarato nell’interpello n. 14/2010 non ha carattere obbligatorio ma solo di indirizzo principale, e le aziende possono sempre erogare un’indennità di trasferta maggiore rispetto a quanto previsto dai singoli contratti collettivi, e che le stesse saranno esenti fino alla capienza massima giornaliera prevista dal Testo Unico. In poche parole tutto cambia nuovamente e si ritorna “a com’era prima”.
L’indennità di trasferta viene riconosciuta dall’azienda al lavoratore a titolo di indennizzo forfettario per le maggiori spese sostenute dallo stesso nell’espletamento delle proprie mansioni e pur rientrando nei redditi da lavoro dipendente, ad essa si riconosce un particolare regime di esenzione: fino alle soglie massime indicate sopra (46,48 euro giornaliere per trasferte in Italia e di 77,47 euro al giorno per quelle estere) saranno esenti. Nessuno vieta al datore di riconoscere al proprio lavoratore un trattamento migliorativo rispetto a quello previsto dal contratto collettivo di lavoro applicato dall’azienda, che deve essere preso solo come base da cui partire.
Alla luce di ciò, l’interpretazione giusta sta nel stabilire dei range entro i quali l’azienda può operare in base alle proprie esigenze.
Gli importi dell’indennità di trasferta sono stati aggiornati una sola volta nel 1995, passando rispettivamente da 60.000 lire a 90.000 lire (46.48 euro) per l’Italia e da 90.000 a 150.000 lire (77,47 euro) per l’estero. Ma il comma 5 dell’articolo 51 del TUIR prevede che si possano adeguare gli importi annualmente.
Quindi, da una parte vi è la possibilità di aggiornare annualmente gli importi dell’indennità di trasferta (che non è mai stata attuata) e dall’altra un’interpretazione del Ministero che non riconosce la possibilità di escludere dall’imposizione sui redditi di lavoro. Si consideri come, negli ultimi 15 anni l’indennità di trasferta abbia subito una forte svalutazione, considerando anche l’effetto del cambio lira – euro.
Potremmo pensare che l’interpretazione fatta dal Ministero sia volta a escludere i comportamenti sbagliati delle aziende che per coprire le ore di straordinario fatte dai propri dipendenti utilizzino le indennità di trasferta. Questo, però è ingiusto perché questi comportamenti sono punibili a mezzo sanzioni.
L’unico metodo sarebbe l’ispezione: prevedere l’analisi, da parte di ispettori, dei singoli casi in modo da individuarne gli abusi di questo istituto, senza sanzionare le aziende che lo utilizzano in modo giusto, anche se con erogazioni di importi maggiori rispetto a quanto previsto da un contratto collettivo.
Ma il Ministero tornando sui suoi passi decide che si ritorna ai limiti massimi stabiliti dall’art. 51 del TUIR e che le parti eccedenti saranno imponibili fiscalmente e quindi resta l’utopia di abbattere qualsiasi abuso si possa fare, svanisce la coscienza di prendere atto che i rimborsi (impropri) costano troppo allo Stato e ai privati.
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