Il lavoro stagionale è una prestazione lavorativa prestata in un periodo specifico dell’anno, in altre parole la prestazione ha una durata breve o media.
Il lavoratore stagionale viene assunto (quasi sempre) con un contratto di lavoro subordinato (quindi dipendente), in genere a tempo determinato o con contratto di apprendista, ma nulla vieta l’utilizzo di altri tipi di contratto atipici, al quale vengono applicate tutte le norme di legge e contrattuali riferite al lavoro stagionale.
Ricordiamo che per accedere al mondo del lavoro bisogna aver raggiunto 16 anni di età e aver frequentato almeno 10 anni di istruzione scolastica obbligatoria.
Entro 3 mesi dalla fine del rapporto lavorativo, i lavoratori stagionali che hanno prestato lavoro presso il medesimo datore, avendo la stessa mansione e qualifica, acquisiscono il diritto di precedenza sulle nuove assunzioni stagionali per lo stesso datore di lavoro.
Per gli Extracomunitari il permesso di soggiorno per lavoro stagionale può essere convertito in permesso di soggiorno per lavoro subordinato dal secondo ingresso per lavoro stagionale, a condizione che esso abbia fatto rientro nel proprio Paese quando sia scaduto il primo permesso di soggiorno per lavoro stagionale. Questa conversione deve essere richiesta nell’ambito del decreto flussi annuale presso lo Sportello Unico competente in base al luogo ove si svolge l’attività lavorativa.
Stabilito chi sono i lavoratori stagionali, da sempre, la domanda che ci fulmina è: che cosa è cambiato o cambierà con l’avvento del Jobs Act?
Innanzi tutto il Jobs Act ha introdotto la acausalità nei contratti a termine fino a 36 mesi e questo significa che è stato eliminato l’obbligo di un motivo di un termine nei contratti di lavoro subordinato, che prima potevano rendere nullo il contratto se mancava con conseguente trasformazione del contratto a tempo indeterminato. In altre parole, sul contratto stipulato non comparirà più il motivo del ricorso all’assunzione del lavoratore subordinato, motivazioni che potevano essere di carattere produttivo, organizzativo o tecnico. Questo obbligo resta, comunque, valido nel caso di contratto a tempo determinato per sostituzione di personale in caso di maternità e per i contratti di lavoro a tempo determinato di tipo stagionale, prevedendo alcune deroghe.
Il termine massimo di 36 mesi, oltre il quale il contratto si trasforma in tempo indeterminato, non trova applicabilità per i lavoratori stagionali che potranno essere riassunti dallo stesso datore di lavoro anche oltre il limite di 36 mesi.
Per i lavoratori stagionali non si contempla neanche lo stop and go, cioè la pausa obbligatoria di 10\20 giorni (a seconda che il contratto originario era inferiore o superiore a 6 mesi) tra un contratto a termine e l’altro, questo vuol dire che, il datore di lavoro con un’attività stagionale, potrà riassumere lo stesso dipendente anche il giorno seguente la conclusione del primo rapporto a termine.
I contratti a tempo determinato acausali possono essere sottoscritti per un massimo del venti per cento di tutto l’organico dell’azienda. Ma questo limite non viene applicato per i contratti stipulati da datori di lavoro che hanno un’attività lavorativa di tipo stagionale.
Gli imprenditori stagionali si trovano, quindi, di fronte a moltissimi cambiamenti in fatto di assunzioni e i lavoratori non sono immuni dai cambiamenti apportati dalla riforma del lavoro.
Una novità importante è l’entrata in vigore di un’assicurazione universale del lavoro chiamata NASPI e che sostituisce l’Aspi e la Mini Aspi introdotte dalla riforma Fornero del 2011. Per chiarire, prima per poter ricevere l’Aspi occorreva possedere due requisiti fondamentali: essere assicurati all’Inps da minimo due anni e aver pagato almeno un anno di contributi nei due che precedono il momento in cui si è perso il lavoro. Chi non possedeva questi requisiti poteva accedere alla Mini Aspi, che era quella maggiormente percepita dai lavoratori stagionali. In questo caso il lavoratore doveva aver versato almeno 13 settimane di contributi negli ultimi 12 mesi e quindi riceve un’indennità per un periodo di tempo corrispondente alla metà delle settimane lavorate nel corso dell’ultimo anno. Questi due ammortizzatori sociali sono scomparsi a partire dal 1° maggio 2015 e sono stati unificati in un’unica indennità, appunto NASPI che ha lo scopo di tutelare una platea più ampia di persone e di rendere più equi i sussidi garantiti dal Governo.
La NASPI è corrisposta per un numero di settimane pari alla metà delle settimane di contribuzione presenti nei quattro anni precedenti la cessazione involontaria del rapporto di lavoro che ha fatto sorgere il diritto alla prestazione. Per il calcolo della durata, non sono utili le settimane di contribuzione che hanno già dato luogo ad erogazione di prestazioni di disoccupazione. Quindi, la durata della NASPI è calcolata sulla base dei periodi contributivi presenti nel quadriennio di osservazione, al netto delle settimane contributive che sono state già utilizzate per precedenti prestazioni. Con ciò finisce il sistema che garantisce una tutela di durata indifferenziata a prescindere dall’entità della contribuzione.
Prima del Jobs Act la salvaguardia per la disoccupazione involontaria, in presenza di una contribuzione minima di 52 settimane nei due anni immediatamente precedenti la cessazione involontaria dal lavoro, garantiva una durata dell’indennità di disoccupazione legata esclusivamente all’età e non all’anzianità contributiva. Non si prendeva in considerazione, per determinare la durata del sussidio, la frequenza con cui la richiesta della prestazione era stata formulata in un determinato arco di tempo. Di conseguenza avevamo beneficiari sistematici di questa prestazione. A bilanciare (o meglio sbilanciare) un minor numero di mesi di contribuzione, alcuni soggetti fruivano di prestazioni più frequentemente di altri lavoratori con contribuzione più consistente in quanto continuativa.
Questo fenomeno era più ricorrente nei lavoratori stagionali, i quali, con sistematicità alternavano periodi semestrali di contribuzione a prestazioni di durata analoga. In altre parole, con 52 settimane nel biennio si “accaparravano” sempre il diritto, a seconda dell’età anagrafica, ad una prestazione di disoccupazione della durata di 8 o 12 mesi. Questo permetteva, a fronte di un’attività lavorativa stagionale ricorrente della durata di sei mesi nell’anno, l’indennizzo dei rimanenti 6 mesi, in cui l’attività lavorativa subiva la sua naturale interruzione. Quindi l’indennità di disoccupazione diventava una specie di integrazione salariale automatica e continuativa e non uno strumento di sostegno al reddito nel frattempo che si fosse impegnati nella ricerca di un impiego alternativo durante i mesi di pausa dall’attività stagionale.
Questo ci porta subito a capire che i lavoratori stagionali avevano più probabilità di ricorrere a questa prestazione rispetto agli altri lavoratori, assorbendo una buona fetta della spesa totale per questo tipo di prestazione.
Per il Jobs Act la NASPI potrà essere richiesta da tutti quei lavoratori, annuali e stagionali, che abbiano maturato almeno 13 settimane di contributi negli ultimi 4 anni e 18 giornate effettive di lavoro nell’ultimo anno. In altre parole, i lavoratori stagionali ricorrenti, a fronte di un rapporto di lavoro della durata di 6 mesi nell’anno, non potranno più percepire, nello stesso anno, di altrettanti mesi di prestazione di disoccupazione, ma fruiranno della prestazione NASPI per soli 3 mesi. Il suo importo massimo sarà di 1300 euro al mese e dopo 4 mesi tale somma sarà ridotta di un 3% ogni mese e avrà una durata di 2 anni massimo.
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